Ha lasciato un segno sulla struttura urbanistica della città
di Adriano Marinensi – Sin dal tempo della dominazione dei Cesari, alcune terre, in faccia al Tirreno centrale, si coltivavano a vigne e ulivi. E’ la Maremma toscana, la costa degli etruschi, degradante dai colli sino al mare. Ove Carducci visse fanciullo e immortalò Nonna Lucia “alta, solenne, vestita di nero”. E’ popolata, come l’Umbria, di piccoli centri abitati e, in passato (e ancora oggi), da una agricoltura fiorente, di ampie dimensioni produttive e commerciali. Sono anche i luoghi della transumanza, le greggi belanti che si muovevano secondo le stagioni, il pascolo all’alpeggio d’estate e d’inverno nelle pianure verdi. Conosco Bolgheri, posto al termine del viale dei cipressi alti e schietti; e ho visto le case a schiera, donate, oltre un secolo fa, agli zappaterra dai blasonati Della Gherardesca che ebbero tra gli avi famosi il Conte Ugolino: “La bocca sollevò dal fiero pasto” (Dante, Inferno).
Una lunga storia di comunità agricole e di famiglie nobili, di classi sociali e di gerarchie culturali. Dal punto di vista dell’assetto territoriale, caratterizzate dall’edilizia spontanea. Quella dei due piani: in basso solitamente la corte per gli animali e la parte elevata, raggiungibile attraverso la scala esterna, destinata ad abitazione. Insomma, il casolare agricolo come segno distintivo. Così come, dalle nostre parti, il marchio di fabbrica lo hanno impresso le case operaie. I casolari fatti costruire magnanimamente dal padrone della terra per i servi della gleba, gli alloggi per gli aziendali, edificati benevolmente dal “padrone delle ferriere”; la distanza breve tra la porta di casa e il cancello dello stabilimento. Faceva comodo al lavoratore quando ancora la locomozione era affidata alla due ruote a pedale e al signor direttore, perché consentiva la reperibilità veloce del dipendente.
A Terni, accadde durante il ventennio nero, pure in ossequio ai dettami populistici del regime. Era, quella dei primi decenni del ‘900, una città ancora popolata dai metalcontadini, la paga integrata dai prodotti del campo, magari coltivato a mezzadria e l’abitare di scarsa qualità dal punto di vista estetico, funzionale e igienico. Per gli aziendali cominciò a sorgere l’edilizia popolare, realizzata in rioni e villaggi. Tra i due interessi, il terzo a godere fu il fascio che, attraverso gli agglomerati urbani, poteva esercitare il controllo politico e irreggimentare il pensiero. Il partito monolitico e la fabbrica totale. Comprese le attività dopolavoristiche e l’organizzazione del tempo libero. Pure con l’intento di tessere la coinvolgente rete della proprietà riservata.
Quel modo di pianificare la città si legge ancora nel presente: Il costruire progettato poco prima e poco dopo la 2a guerra mondiale. Il prototipo simbolico lo può rappresentare il Villaggio Matteotti. Quando sorse (nel 1938 – 40), gli misero nome Italo Balbo, in omaggio all’eroe dell’aria che aveva trasvolato l’Atlantico. Si trattava di 41 edifici indipendenti per un totale di 164 alloggi. I restanti 124 sono del periodo 1945 – 46. Stessa funzione per il Villaggio Polymer, collocato accanto al muro di cinta della Società chimica della Gomma sintetica.
E’ datato 1936 il Grattacielo, all’inizio di Viale Brin, a pochi passi dall’Acciaieria,10 piani e 70 appartamenti. Poi, il Palazzo rosa dal colore delle facciate: 6 piani e 50 abitazioni. Nella zona di S. Valentino, prospiciente la Basilica, viene realizzato (1839 – 40) un quartiere di medie dimensioni, mezzo rurale, per i dipendenti delle Officine Bosco. Ma, questi sono soltanto alcuni “prototipi” (tratti da uno scritto di Augusto Ciuffetti), in quanto molti altri interventi di edilizia tal quale si resero necessari per far fronte alla grande richiesta abitativa e rimettere in piedi, nei tempi successivi, la città distrutta dalle bombe. Era la vita nuova che si opponeva, con tenacia, alla violenza subita e mostrava ancora testimonianza nelle macerie.
La conseguenza fu una progettazione affrettata, però giustificabile; a differenza di quella di lì in avanti, poco attenta alla qualità estetica delle tipologie architettoniche. Tutto oggi fa parte della (ex) città industriale e ne identifica le origini, proprio attraverso il tipo di edificazione di quartiere, specchio del costume esistenziale d’epoca. A pesare la scarsa sensibilità ecologica, i carenti principi di urbanizzazione, la ridotta tutela della salute umana.
Ci fu anche – occorre ricordarla – l’intesa raggiunta tra il Comune e la dirigenza dell’Acciaieria: ampia concessione delle risorse idriche per la forza motrice, in cambio di una vasta pianificazione di interventi per quegli alloggi aziendali. Altro carattere da segnalare: le relazioni comunitarie che sempre si instaurano sulla base della vicinanza fisica nell’edilizia di quantità, aggiunta al cameratismo che nasce spontaneo sul posto di lavoro. Quindi, nel complesso, la socialità solidale, riuscì, all’epoca del grande sviluppo urbanistico, a compensare la massiccia presenza popolare. Si è comunque trattato di un periodo sostanziale di storia di Terni e del lavoro.
Fuorisacco telegrafico: Due anni di triboli dovuti al COVID 19 che ci ha imposto una sequela di lutti, sacrifici individuali e sociali, batoste economiche, probabilmente, per i tanti peccati commessi, forse non bastavano. Ora sono arrivati i morti, le distruzioni, le violenze della ignobile aggressione all’Ucraina. Tra i dolorosi effetti, la crisi umanitaria che coinvolge i bambini. Nessun rispetto manco per loro. Importante è fare macerie d’ogni tipo. Ne sappiamo qualcosa noi ternani con i capelli candidi e gli anni lunghi. L’angoscia delle sirene d’allarme, la tristezza dei ricoveri sotterranei, le bombe, la casa che c’era ed ora non più. Mi fanno orrore i sostenitori di uno dei peggiori tiranni insediatisi al Cremlino. Dall’aula dell’antico Senato romano, caro Cicerone, diglielo tu: Mala tempora currunt, sed peiora parantur!
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